Morto in carcere dopo l'arresto, è polemica
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Morto in carcere dopo l'arresto, è polemica
Fonte: La Stampa
«Fare chiarezza, vogliamo la verità»: il caso di Stefano Cucchi, morto in ospedale sei giorni dopo l’ arresto per possesso di droga senza che i genitori abbiano potuto rivederlo, ha azzerato per una volta le distanze tra le forze politiche che, pur se con toni diversi, chiedono che si accertino al più presto le responsabilità.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, che già due giorni fa nel question time alla Camera aveva detto di aver disposto accertamenti sulla vicenda, oggi ha telefonato al procuratore di Roma Giovanni Ferrara per assicurare «pieno sostegno alle indagini», auspicando «celerità nell’accertamento della verità e dei colpevoli». Il capo del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta assicura che l’ inchiesta amministrativa comincerà «nel giro di pochi giorni» e si concluderà in meno di due settimane. «In questo momento - ha spiegato - è in corso l’inchiesta giudiziaria, attendiamo perciò che termini la fase acquisitoria da parte della procura di Roma prima di cominciare noi l’esame» degli agenti penitenziari e dei sanitari che hanno avuto a che fare con Cucchi nel carcere di Regina Coeli.
Nel frattempo, il Dap ha già consegnato alla procura tutta la documentazione in suo possesso, tra cui il referto della visita medica di primo ingresso in carcere e le foto segnaletiche di Cucchi scattate all’ufficio matricola del penitenziario romano. Dagli esponenti politici dei due schieramenti la richiesta di verità è stata unanime e trasversale. «Il governo deve dire al Paese cosa è accaduto, ne va della credibilità delle istituzioni», ha detto Donatella Ferranti, capogruppo del Pd. Secondo Luigi De Magistris, eurodeputato dell’ Idv ed ex pm, «lo Stato non può avere paura di se stesso, non può temere di individuare e punire quei corpi estranei e parassitari che pure ci sono al suo interno». Per il portavoce del Pdl Daniele Capezzone «la verità è nell’ interesse di tutti, non è il momento delle speculazioni politiche». Il capogruppo del Pdl alla Camera ritiene «indispensabile che chi ha sbagliato debba pagare».
Anche i penalisti italiani sostengono che «non si può consentire che dubbi si addensino sulle istituzioni» e chiedono indagini che non guardino in faccia a nessuno «affinchè non si ritorni agli anni bui in cui non si sapeva cosa accadesse in caserme e commissariati». A scatenare la polemica è stato l’ intervento del ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «Quello che è successo - ha affermato - non sono in grado di dirlo in quanto si tratta di una competenza assolutamente estranea al ministero della Difesa, in quanto attiene da un lato ai carabinieri come forze di polizia, quindi al ministero dell’Interno, dall’altro al ministero della Giustizia. Quindi non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Parole alle quali hanno fatto da contraltare quelle del Guardasigilli Alfano che ha confermato la fiducia nell’ operato della Polizia Penitenziaria «che ogni giorno svolge i suoi delicati compiti con abnegazione e in contesti difficili».
Se i sindacati della polizia penitenziaria hanno rilevato che il ministro della Difesa «ha perso una buona occasione di tacere», dal Pd è stato stigmatizzato l’ «imbarazzante scaricabarile sulla vicenda», mentre il segretario di Prc, Paolo Ferrero, non ha usato mezzi termini: «I carabinieri che hanno compiuto questi atti devono finire in galera». In serata, però, il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga ha puntualizzato: «Pur in assenza di precisi elementi di conoscenza, si conferma fino a prova contraria, la tradizionale vicinanza del ministero ai militari. Nei rarissimi casi in cui sono stati posti in essere comportamenti non corretti, l’Arma ha sempre operato e sempre opererà con assoluta decisione e severità».
Re: Morto in carcere dopo l'arresto, è polemica
Fonte: La Stampa
Omicidio preterintenzionale: è questo il reato ipotizzato contro ignoti dalla procura di Roma nell’inchiesta sulla vicenda di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni, fermato dai carabinieri per droga il 15 ottobre scorso al Parco degli Acquedotti, a Roma, morto il 22 mattina nell’ospedale Pertini dopo alcuni giorni di detenzione nel carcere di Regina Coeli.
Una decisione che può essere un primo tassello per arrivare alla verità chiesta a gran voce dalla famiglia di Stefano che ieri ha mostrato le foto del giovane, già sofferente di epilessia, sul tavolo autoptico: un cadavere dal volto devastato, l’occhio destro rientrato, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme e la mascella fratturata. «Finalmente si sta muovendo qualcosa», si sfoga la sorella Ilaria. Alla base della configurazione dell’ipotesi di reato formulata dal pm Vincenzo Barba, titolare degli accertamenti, c’è la tipologia delle lesioni riscontrate sulla salma. Verificare se Cucchi abbia subito lesioni, chi gliele ha procurate e se queste abbiano provocato la morte del detenuto: sono questi gli interrogativi ai quali il magistrato intende dare risposte.
Per questo sono già stati sentiti come testimoni alcuni carabinieri della stazione Appio-Claudio in cui Cucchi passò, in una cella di sicurezza, la prima notte, quella tra il 15 ed il 16 ottobre scorsi, in seguito al fermo per detenzione di droga. Già sentiti anche alcuni agenti di polizia penitenziaria. Altri dovranno essere sentiti, compreso l’uomo al quale Cucchi cedette l’hashish prima di essere fermato. Si dovrà anche attendere l’esito dell’autopsia del giovane. Ad essere sicuro che sarà fatta chiarezza sulla morte di Cucchi è il comandante provinciale dei carabinieri di Roma, Vittorio Tomasone: «Non abbiamo nulla da nascondere, il nostro operato sarà valutato dalla magistratura». Stefano, secondo quanto accertato, si presentò all’udienza di convalida del fermo davanti al giudice Maria Inzitari il 16 ottobre: visitato da un medico del tribunale, gli sarebbero state riscontrate «lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente», giudicate "non allarmanti", tant’è che il medico ne attestò la idoneità alla detenzione. Nel corso dell’udienza di convalida Cucchi non avrebbe fatto alcun riferimento a botte o a incidenti.
Sempre al medico del Tribunale - secondo quanto riferito dal ministro della Giustizia Angelino Alfano due giorni fa, nel corso del question time alla Camera - Cucchi avrebbe anche riferito lesioni alla regione sacrale ed agli arti inferiori che però non sarebbero state verificate dal sanitario perchè il detenuto non acconsentì e rifiutò le cure mediche. Trasferito a Regina Coeli, fu sottoposto alla visita medica di primo ingresso che, sempre secondo quanto riferito da Alfano, evidenziò «la presenza di ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione e arti inferiori». Al medico del carcere Cucchi riferì di una caduta accidentale dalle scale. Trasportato nell’ospedale Fatebenefratelli, rifiutò il ricovero. Il giorno dopo, per un malore, fu portato dal carcere al Pertini dove morì per «presunta morte naturale», come da certificazione medica.
La famiglia di Cucchi non è pienamente soddisfatta della la mossa dei pm. «Si procede a carico di ignoti - ha detto l’avvocato Franco Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi -. Credo che coloro che l’hanno avuto in custodia o in cura non sono ignoti. Mi aspetto indagati, mi aspetto che queste persone vengano a dare una spiegazione». Intanto sindacati di polizia penitenziaria si difendono. Per Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, assicura che, «secondo fonti attendibili, Stefano sarebbe arrivato a Regina Coeli direttamente dal tribunale già in quelle condizioni, e accompagnato da un certificato medico che ne autorizzava la detenzione, come di solito si fa in questi casi». Il sindacato protesta anche con Michele Santoro per come è stato trattato ieri il caso ad Annozero. «Quale rappresentanti di un’istituzione autorevole che qualcuno tenta di annientare strumentalizzando il "caso" - prosegue Beneduci - siamo disgustati da una vicenda grave che sta via via assumendo le fattezze di un fatto politico e che rischia di disonorarci: come per il caso Bianzino, il caso Aldovrandi. Le ombre ci uccidono, uccidono l’intera categoria alla quale ci esaltiamo di appartenere, ed è triste che fino adesso siamo stati l’unica organizzazione sindacale ad avere il coraggio di dire la propria con grande chiarezza ed onestà».
Re: Morto in carcere dopo l'arresto, è polemica
Fonte: La Stampa
Che il figlio fosse morto, Rita Cucchi lo ha saputo leggendo poche righe di un atto giudiziario consegnato da un carabiniere: l’invito a nominare un perito di parte per assistere all’autospia. «Nessuno ci ha avvertito, nessuno si è preso la briga di avvertirci di quello che era successo in ospedale - dice con rabbia il padre, Giovanni -. Stefano è morto solo, il corpo massacrato l’ho visto solo dopo, in obitorio. Provo una rabbia enorme...». E come non capire il rancore di un uomo che non riesce a sapere esattamente quando, come e perché suo figlio è morto? Come dare torto a un padre al quale nessuno spiega il motivo per cui non gli è stato permesso di vedere il suo ragazzo in ospedale quando era ancora vivo, o almeno di parlare con i medici che lo avevano in cura? A lui restano i mille dubbi sull’ultima settimana di vita del figlio, arrestato la notte del 15 ottobre e morto la mattina del 22, e soprattutto le immagini di un cadavere tumefatto, con le ossa della schiena fratturate, i lividi sugli zigomi e attorno agli occhi, uno dei quali, quello sinistro, come schiacciato nell’orbita. Segni evidenti di un pestaggio. Il compito di ricostruire quanto è accaduto a Stefano Cucchi, 31 anni, il fisico debilitato dalla droga, dall’anoressia e dall’epilessia, è affidato al sostituto procuratore della Repubblica Vincenzo Barba, lo stesso che ha indagato sui romani arrestati e poi risultati innocenti per lo stupro di una ragazzina nel parco della Caffarella. Ieri il pm ha ascoltato i quattro carabinieri che avevano arrestato il ragazzo e alcuni agenti della polizia penitenziaria. Tocca a lui stabilire con precisione quando e dove il pestaggio sia avvenuto.
Il mistero comincia la notte fra il 15 e il 16 ottobre, quando i carabinieri fermano Stefano trovato in possesso di una ventina di grammi di hashish, una piccola quantità di cocaina e alcune pillole che a prima vista sembrano ecstasy, ma che poi si riveleranno farmaci contro l’epilessia. Gli uomini in divisa lo portano a casa per una perquisizione alla quale assistono anche i genitori. «Non aveva un solo livido sulla faccia», ricordano il padre e la madre. Subito dopo, Stefano viene rinchiuso in una cella di sicurezza di una caserma a Tor Sapienza, dove trascorre il resto della notte. Cosa accade in quelle ore? Secondo la versione che trapela dagli ambienti dell’Arma dei carabinieri il giovane sembra molto debilitato. E’ steso sulla branda con quattro coperte addosso ma ne chiede un’altra perché ha freddo. Il piantone è preoccupato, tanto da chiamare il 118. Il medico arriva dopo mezz’ora, dà un’occhiata al paziente che però si rifiuta di farsi visitare. Stila comunque un referto, che sarà poi consegnato alla Procura. Il 16 ottobre, alle 9, Stefano arriva al Palazzo di giustizia per l’udienza di convalida del fermo. Alle 9,30 i carabinieri di scorta lo affidano agli agenti della polizia penitenziaria che lo rinchiudono in una cella di sicurezza in attesa dell’udienza. I carabinieri lo riprendono in consegna alle 12,30 per portarlo in aula. Davanti al giudice Stefano dice di soffrire di epilessia, e di essere tossicomane e sieropositivo. Tutto qui? Niente affatto. Sta male, e non per le malattie di cui soffre. Ha il viso gonfio, il medico del Palazzo di giustizia riscontra «lesioni ecchimotiche alla regione palpebrale inferiore bilateralmente». Stefano dice di avere forti dolori per delle «lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori», com’è scritto nel referto. Il medico, però, non può esprimersi oltre perché il detenuto rifiuta una visita più approfondita, e dà il nullaosta per il trasferimento in carcere.
A Regina Coeli, però, sono preoccupati. Portano Stefano in infermeria, dove un altro medico lo visita e gli chiede che cosa sia accaduto: «Sono inciampato per le scale», è la risposta laconica del detenuto che viene trasferito in un ospedale per gli accertamenti. Una radiografia rivela la frattura di una vertebra e del coccige. Sarebbe necessario il ricovero, ma ancora una volta Stefano lo rifiuta. Il 17, dopo una notte trascorsa in carcere, le sue condizioni peggiorano, al punto che si rende necessario il trasferimento al «Sandro Pertini», reparto detenuti. Per cinque giorni il padre tenterà inutilmente di vederlo, o quanto meno di parlare con i medici. L’unica notizia la riceverà il 22 mattina, e sarà quella della morte del figlio.
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