Amauri, la nuova Nazionale di Prandelli:"Io e Balotelli insieme, un bel segnale per un paese multietnico come l'Italia"

Il passaporto e il cuore italiano di un nome brasiliano, Amauri Carvalho de Oliveira, cominciano a battere alla sei della sera di venerdì, quando una telefonata di Matteo Fabris, team manager juventino, comunica l’iscrizione all’anagrafe di Cesare Prandelli: ti ha convocato in Nazionale, ce l’hai fatta. «Uno dei giorni più felici della mia vita - diceva ancora ieri Amauri - qui a casa stiamo ancora festeggiando. Ci speravo, ma fino a quel momento non sapevo nulla».

Entro sera il telefono gli si stiperà di squilli e messaggi, «ha chiamato tutta la rubrica», ma i primi complimenti sono dei suoi piccoli tifosi personali, i due figli. «Quando è arrivata la chiamata stavo giocando con loro. Hugo Leonardo, che ha tre anni e mezzo e ancora a queste cose non guarda, e Cindy, che invece ne ha otto. Lei mi ha dato un bacio e mi ha detto: “Bravo papà, visto che sei forte?”». Se l’era ripetuto anche lui, di essere forte, ma gli ultimi mesi della stagione scorsa gli avevano rubato i gol e pignorato il primo desiderio azzurro: «Però non ho mai smesso di crederci, alla Nazionale, da testardo quale sono. E se ora ripenso a dieci anni fa, quando sono arrivato in Italia, mi sembra un sogno davvero».

Da venerdì in poi, se c’è un tetto della felicità, lui l’ha ampiamente sfondato: «Sono felice - vocabolo che ripete una decina di volte in venti minuti, in un conteggio per difetto - perché sono soddisfatto e perché questo è un grande traguardo, come già lo era stato arrivare alla Juve». Traguardo mica solo per lui, forse, ma pure per l’Italia: nazione, oltre che nazionale. «Al di là di tutte le polemiche, penso che la mia convocazione e quella di Balotelli possano essere un bel messaggio per l’Italia. Anche per chi è meno fortunato di noi, fa lavori più faticosi e meno famosi, non è nato qui, ma ci vive e lavora da una vita». Multietnica per davvero, insomma, non solo per spot: «Io sono nato in Brasile, ma è da dieci anni che pago le tasse qui - ripete Amauri - e Mario è un ragazzo di colore, italiano. Può essere un bel segnale». Brutto solo per il deputato della Lega Nord, Davide Cavallotto: «Non è bastata la figuraccia al Mondiale, ora a ridicolizzare l’Italia ci penseranno gli oriundi».

Non basterà, per fermare Amauri: «Volevo andare in Nazionale, ma vorrei non fosse finita qui. Anzi, continuerò a lavorare per restarci e per giocare qualcosa di importante con la maglia azzurra». Che è pure una promessa a Prandelli: «Non l’ho sentito, ma appena lo vedo lo ringrazierò per la fiducia che mi ha dato. Così come ringrazio ancora Marcello (Lippi, ndr), che con me è stato sempre chiaro e corretto». Anche se non lo ha portato in Sudafrica: «Del no mi spiegò il perché, ma io già lo sapevo: non avevo giocato una buona stagione e quel passaporto era arrivato troppo tardi». Quasi era diventato un’ossessione: «Un po’ sì, e mentalmente mi aveva messo molta pressione, perché alla fine si parlava quasi sempre di quello».

Poi, finalmente, la stagione s’era chiusa: «Sono andato in vacanza e mi sono detto: “Non finisce qui”. Volevo dimostrare che l’Amauri degli ultimi mesi non era quello vero e che in Nazionale potevo andarci». È stato triste, ma mai depresso: «Devo ringraziare Dio e mia moglie, Cynthia, che mi è sempre stata vicino e mi ha sostenuto». Quando tutto sembrava filare storto, e anche peggio, e le critiche lo trituravano: «Non ho alcuna rivincita da prendermi, contro nessuno, non sono uno che porta rancori: cerco sempre di guardare avanti. Sono felice, e questo mi basta». Così è il tempo degli amici, non dei nemici: «Penso a tutti quelli che hanno lavorato con me negli ultimi dieci anni, dal Napoli alla Juve, e che mi hanno aiutato ad arrivare qui. Se sono cresciuto, è merito loro».

Pure suo, va da sé: «Ora mi sento di nuovo bene fisicamente - racconta - e riesco ad andare su tutti i palloni, cercando di dare una mano ai compagni». Al solito, s’è rimesso a posto allenandosi da solo, prima del ritiro: «Anche se quest’anno ho dovuto farlo in Brasile, a San Paolo, perché mia mamma aveva in programma un intervento delicato». Per una maglia azzurra, ora fanno festa anche là, dove pure vige la religione verdeoro: «Ma i miei genitori sono felici e sulla scelta dell’Italia e di questa Nazionale erano con me al duecento per cento. Finalmente, ce l’ho fatta».

Fonte: La Stampa