Clima, l'ONU a Obama: "Agire adesso"
Clima, l'ONU a Obama: "Agire adesso"
Fonte: La Stampa
A sei settimane da un appuntamento presentato da più parti come «storico», cresce nel mondo il timore che la Conferenza di Copenhagen sull’ambiente si risolva in un mezzo fiasco. Dal 7 al 18 dicembre i rappresentanti di 192 governi sono attesi nella capitale danese per un summit che dovrebbe porre le basi per un nuovo patto planetario sulla lotta alle emissioni di biossido di carbonio e al riscaldamento globale.
Ma l’Onu, che ha promosso l’iniziativa, ora teme il fallimento. «Il tempo rimasto è troppo poco per un accordo internazionale di vasta portata», ha ammonito Yvo de Boer, il negoziatore delle Nazioni Unite sul clima. Gli ha fatto eco in una conferenza a Stoccolma Rajendra Pachauri, il capo dell’Ipcc, l’organismo dell’Onu per gli studi sul clima. Pachauri ha puntato l’indice sul presidente americano Barack Obama, sostenendo che «deve fare molto di più» e gettarsi a testa bassa nell’iter della legge sul controllo delle emissioni, ferma in Congresso. Senza «tutto il peso del presidente», ha spiegato, la legge non arriverà in tempo per Copenhagen e sarà un forte freno a un accordo alla Conferenza. In assenza del buon esempio da parte degli Stati Uniti, maggiori «inquinatori» insieme alla Cina, il resto del mondo secondo Pachauri non si muoverà.
Ma l’amministrazione Obama è impegnata sulla riforma della sanità e pochi ritengono che un nuova legge sull’energia e le emissioni possa arrivare al traguardo entro la fine dell’anno. Una circostanza che contribuisce alla preoccupazione in varie capitali e frena gli entusiasmi di altre.
A Londra per tutta la settimana si sono succeduti interventi del governo britannico per spronare il mondo ad agire. «Abbiamo meno di 50 giorni per decidere che cosa saranno i prossimi 50 anni e oltre», ha detto il primo ministro Gordon Brown, secondo il quale senza un accordo a Copenhagen si andrà verso un futuro fatto di disastri naturali. A rincarare la dose è stato il suo ministro degli Esteri, David Miliband, accusando la comunità internazionale di non percepire «l’emergenza umana» all’orizzonte. Miliband ha presentato una mappa interattiva che racconta cosa accadrebbe nel mondo nel caso le temperature salissero di 4 gradi, descrivendo uno scenario fatto di aumento delle tensioni in Medio Oriente, guerre per l’acqua e il cibo, e migrazioni senza precedenti di popoli interi.
Il Giappone, nello stesso tempo, ha cominciato a frenare sul proprio proposito di ridurre le emissioni del 25% rispetto ai livelli in cui erano nel 1990. Se Copenhagen non raggiunge l’obiettivo di imporre una seria riduzione dell’inquinamento negli altri paesi ricchi, ha detto il ministro dell’Ambiente giapponese Sakihito Ozawa, allora Tokyo ridimensionerà il programma di tagli.
A Bruxelles, nel frattempo, girano le bozze di un rapporto che l’Unione Europea si appresta a presentare, nel quale si avverte che i cambiamenti climatici stanno avvenendo «più velocemente del previsto e i rischi che pongono sono già visibili: ampi scioglimenti di ghiacci, crescita dei livelli dei mari e aumento del numero e dell’intensità di alluvioni, siccità e carestie». I paesi in via di sviluppo, prevede il rapporto Ue anticipato dalla Reuters, avranno bisogno di 100 miliardi di euro l’anno per far fronte alla situazione.
A sei settimane da un appuntamento presentato da più parti come «storico», cresce nel mondo il timore che la Conferenza di Copenhagen sull’ambiente si risolva in un mezzo fiasco. Dal 7 al 18 dicembre i rappresentanti di 192 governi sono attesi nella capitale danese per un summit che dovrebbe porre le basi per un nuovo patto planetario sulla lotta alle emissioni di biossido di carbonio e al riscaldamento globale.
Ma l’Onu, che ha promosso l’iniziativa, ora teme il fallimento. «Il tempo rimasto è troppo poco per un accordo internazionale di vasta portata», ha ammonito Yvo de Boer, il negoziatore delle Nazioni Unite sul clima. Gli ha fatto eco in una conferenza a Stoccolma Rajendra Pachauri, il capo dell’Ipcc, l’organismo dell’Onu per gli studi sul clima. Pachauri ha puntato l’indice sul presidente americano Barack Obama, sostenendo che «deve fare molto di più» e gettarsi a testa bassa nell’iter della legge sul controllo delle emissioni, ferma in Congresso. Senza «tutto il peso del presidente», ha spiegato, la legge non arriverà in tempo per Copenhagen e sarà un forte freno a un accordo alla Conferenza. In assenza del buon esempio da parte degli Stati Uniti, maggiori «inquinatori» insieme alla Cina, il resto del mondo secondo Pachauri non si muoverà.
Ma l’amministrazione Obama è impegnata sulla riforma della sanità e pochi ritengono che un nuova legge sull’energia e le emissioni possa arrivare al traguardo entro la fine dell’anno. Una circostanza che contribuisce alla preoccupazione in varie capitali e frena gli entusiasmi di altre.
A Londra per tutta la settimana si sono succeduti interventi del governo britannico per spronare il mondo ad agire. «Abbiamo meno di 50 giorni per decidere che cosa saranno i prossimi 50 anni e oltre», ha detto il primo ministro Gordon Brown, secondo il quale senza un accordo a Copenhagen si andrà verso un futuro fatto di disastri naturali. A rincarare la dose è stato il suo ministro degli Esteri, David Miliband, accusando la comunità internazionale di non percepire «l’emergenza umana» all’orizzonte. Miliband ha presentato una mappa interattiva che racconta cosa accadrebbe nel mondo nel caso le temperature salissero di 4 gradi, descrivendo uno scenario fatto di aumento delle tensioni in Medio Oriente, guerre per l’acqua e il cibo, e migrazioni senza precedenti di popoli interi.
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