UE, D'Alema candidato a Ministro degli Esteri

La scelta del prossimo ministro degli Esteri dell’Unione europea «non è una questione tra Berlusconi e D’Alema, perchè è una partita molto difficile e ci sono molti candidati»: lo precisa lo stesso Massimo D’Alema, candidato dai socialisti europei al ruolo di rappresentante Ue per la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc).

«Leggendo i giornali italiani - afferma D’Alema intrattenendosi con i cronisti all’uscita di un bar al centro di Roma - sembra che si decida tutto qui, e invece no, ci sono 27 paesi membri. Adesso vedremo, saranno giornate complicate e meno ne parliamo, meglio è. È una corsa con molti candidati anche molto autorevoli».

D’Alema ha peraltro ribadito il proprio apprezzamento per la disponibilità espressa dal premier Berlusconi a sostenere la sua candidatura come Mr Pesc. «È una cosa normale», ha detto, «vorrei far presente che il presidente della Commissione europea, che era un conservatore, è stato nominato da un governo socialista e che non appena si è profilata la possibilità che il ministro degli Esteri sia socialista, il presidente della Repubblica francese, che è un conservatore, si è dichiarato disponibile a nominare un socialista francese. Non c’è nessun paese in cui esisterebbe questo problema, solo da noi. Rendo però atto al governo - ha concluso l’ex premier - di essersi comportato esattamente come ci si comporta negli altri paesi europei. Questo è un fatto molto positivo».

Al cospetto dell’Europa rischia di andare in scena la più classica commedia degli equivoci, con finale esilarante. Già, perché di intenzioni serie dietro le quinte non se ne vede, semmai si assiste a una gara di furbizie in cui per ora vince D’Alema (ma con Berlusconi non si sa mai). Tutto nasce nei giardini di Villa Madama, due settimane fa. C’è un convegno su Fiumicino e Malpensa, Gianni Letta parlotta con l’ex ministro degli Esteri, poi gli fa stringere la mano al Cavaliere, pace fatta dopo mesi di insulti, ed è già una notizia. Salta fuori adesso che l’oggetto dei conciliaboli era proprio l’ipotesi di «Baffino» capo della diplomazia europea. Qualche giorno dopo, stavolta ad Asolo, D’Alema ci torna su con Fini. Il presidente della Camera vede uno spiraglio per una ripresa del dialogo sulle riforme, auspicata pure sul Colle. Ne ragiona col solito Letta e con lo stesso Berlusconi. Il quale peraltro, con chi gli parla ieri mattina, risulta combattuto nell’intimo, incapace di scegliere tra il sì e il no. Finché D’Alema rompe gli indugi. E verso l’ora di pranzo chiama Palazzo Chigi, «insomma che avete deciso? I giochi stanno entrando nel vivo...».

Letta si precipita ad avvertire il Capo, sempre alle prese con la scarlattina. Berlusconi vorrebbe traccheggiare, però il Consigliere gli fa presente che qualcosa dovrà pur dire comunque, magari un’apertura molto cauta, in perfetto stile Prima Repubblica, così nessuno potrà accusare il governo di aver negato all’Italia un’ipotesi talmente prestigiosa, quella di avere appunto il responsabile della politica estera europea. Il comunicato che segue è un piccolo capolavoro di ipocrisia, allude senza impegnarsi. Ma non fa i conti con quel grandissimo paravento di D’Alema. Che ruba il mestiere al portavoce di Palazzo Chigi, Bonaiuti, e dà lui l’interpretazione autentica, «grazie al governo per la candidatura», come se il caro Silvio l’avesse davvero avanzata. Peccato che in serata, al telefono da Arcore, il premier risulti tuttora in dubbio: «Non ho promesso un bel niente» giura a un amico, «figurati se posso proporre io D’Alema, e poi tutta questa disponibilità socialista a sostenerlo non mi risulta affatto, anzi il contrario, ci penserà l’Europa a bocciarlo...». Come sempre in questi casi, il mondo berlusconiano si spacca come una mela. E invece di aiutare il leader nella sua scelta, i suggeritori gli confondono ancor di più le idee. Su un piatto della bilancia c’è l’ovvio desiderio di metter fine alle demonizzazioni reciproche, tra l’altro segretario Pd è appena diventato Bersani, tutto congiura per il cambio di fase.

Un gesto generoso e patriottico aprirebbe un credito politico a favore del Cavaliere. Campa cavallo, obiettano i nemici di D’Alema, quando mai Massimo si è dimostrato grato? Mai fidarsi degli ex comunisti dalla lingua biforcuta. Insistono i fautori, anche autorevoli, del «via libera»: se dialogo dovrà essere col Pd, caro Silvio, molto meglio che lo conduca tu direttamente con D’Alema, sennò a tessere la tela saranno altri, magari Fini, oppure Bossi, e ti taglieranno fuori. L’argomento non lascia insensibile Berlusconi, uomo sospettoso. Però al tempo stesso molto concreto. Per insediare D’Alema, dovrebbe privarsi di un commissario europeo fedelissimo come Tajani. Che non solo gli cura dossier importanti tipo Alitalia, ma gli fa pure da sentinella contro eventuali blitz anti-Mediaset. A quel punto il Cavaliere resterebbe nudo a Bruxelles dove l’ambasciatore Feroci, ricordano nei Palazzi, fu già capo di gabinetto con D’Alema ministro. Sarebbe come mettersi due volte nelle sue mani.

Il martedì prima delle Primarie del Pd, tra i banchi di frutta e verdura di un mercato della periferia romana, Massimo D’Alema si stava producendo nell’ennesimo comizio volante della sua vita e tra una battuta e l’altra, i compagni gli hanno sentito dire: «Se il Gruppo ottiene quel posto, il candidato sono io...». D’Alema si si riferiva alla sua possibile nomina a ministro degli Esteri della Comunità europea? Quel giorno gli amici del Circolo non lo hanno capito in modo chiaro, anche se in molti lo hanno pensato. Ma una cosa è certa: non si diventa «Mister Pesc» per effetto di un’improvvisazione. E infatti l’operazione-D’Alema è partita col dovuto anticipo: due anni orsono. E dunque, se può essere controversa l’affermazione fatta ieri a Milano dall’ex premier («Il Trattato non prevede un’autocandidatura»), è però vero che un lungo lavoro diplomatico sta dietro alla decisione di due giorni fa del Pse. Che ha indicato una rosa ristretta per Mister Pesc. Una short-list di quattro nomi, tra cui l’ex premier italiano Massimo D’Alema. A quei quattro nomi si è arrivati per effetto di spinte e controspinte diverse, ma nel caso di D’Alema anche sulla scorta di un lungo, sapiente lavorio diplomatico italiano all’interno della famiglia socialista europea, da sempre divisa tra diverse sfere d’influenza, i nordici, i tedeschi, i francesi, gli spagnoli. Negli ultimi giorni, dietro le quinte, gli ultimi, importanti «ritocchi».

A cominciare dal «sì» espresso - in via informale ma con convinzione - dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Tutto ha inizio negli ultimi giorni del 2007, dopo la firma da parte dei 27 Stati membri dell’Unione del Trattato di Lisbona, che tra le altre cose, ridisegna i poteri del «governo» europeo, unificando poteri ancora oggi divisi, nella nuova figura dell’Alto rappresentante per la politica estera. Ai primi di gennaio, caduto il governo Prodi, D’Alema comincia ad accarezzare l’idea di diventare il primo «Mister Pesc» previsto dalla nuova «Costituzione» europea. D’Alema sa di avere un curriculum da «fascia A» (ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri di uno dei Paesi fondatori dell’Unione) e sa che l’Italia vanta un forte credito in termini di «poltronissime» europee. Per creare le condizioni giuste, si mette in moto Piero Fassino, da anni personaggio molto stimato da tutte le famiglie socialiste europee, ma il suo lavoro si deve interrompere sei mesi più tardi, subito dopo il no dell’Irlanda al Trattato di Lisbona. La tessitura riprende per effetto del ripensamento degli irlandesi. E D’Alema? «Baffino» lo sa benisssimo: senza il via libera di Berlusconi, non si va da nessuna parte. Ma per quasi due anni resta duramente polemico l’atteggiamento di D’Alema verso il Cavaliere, tanto è vero che il 10 ottobre scorso l’ex premier rilascia al «Riformista» una intervista (che ieri era ancora sulla home page di www.massimodalema.it) nella quale sosteveva che «in un Paese normale Berlusconi si sarebbe già dimesso, lo avrebbe costretto il suo partito».

Quattro giorni dopo, però, accade un evento sorprendente: a Villa Madama alla presentazione dell’alleanza tra Malpensa e Fiumicino, a sorpresa compare anche Massimo D’Alema, che dà vita ad un amabile scambio di battute col premier. Da quel giorno il fuoco polemico dalemiano non si è spento, ma si è attenuato. E Bersani? Cosa deve sperare? Un’ascesa di D’Alema verrebbe vissuta dal popolo di sinistra come un riconoscimento allo status del personaggio o invece si riprorrebbe lo spettro dell’inciucio? Un personaggio decisamente al di sopra delle parti come il professor Arturo Parisi scuote la testa: «Inciucio? Direi di no. Nella misura in cui la candidatura si presentasse come plausibile, il governo dovrebbe assecondarla. Nessuno può negare i titoli di Massimo D’Alema».